di Patrizia Ferri in Catalogo dell’omonima mostra, Galleria Banchi Nuovi, Roma 1991 |
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Città, 1982 |
La scultura è un genere crudele. Nell’alternarsi del suo statuto, è oggi fiera di esibire una riacquisita inesorabilità dopo il perdono ottenuto rispetto a quella colpa originaria di una tangibile tridimensionalità e della presa di possesso fisica dello spazio, giocata nella riproduzione all’infinito dello stile e sulla ripetizione della forma. Problema questo, avvertito e angosciosamente, da un artista come Pascali che ha lavorato contro la fondazione di uno stile e sull’unicità irripetibile dell’opera – più che sulla soggettività dell’autore – nello sviluppo della “figurabilità” della scultura. Il recente riscatto condotto mediante la riduzione fino all'evaporazione ascetica e all'azzeramento della forma, ha inizio almeno dalla prima metà degli anni '80, fino all'ultima ondata di raffreddamento. Ciò è il risultato della riflessione sui postulati della costellazione concettuale, soprattutto sulla Minimal Art che, spingendo la dimensione linguistica fino alla tautologia e alla deriva di una completa non-significanza ha segnato una vera e propria rottura rispetto alla scultura precedente. La ricostituzione secondo uno statuto di complessità dell'oggetto plastico e la conseguente attivazione dello spazio per aumentare la messa in scena, avviene in un clima di costruzione come edificazione di tensioni affermative e atti di forza che non si verifica in maniera rettilinea, ma comporta anche attimi di oscurità e di cancellazione. L'opera diviene spazio attivato per occupazione, per amplificazione d'ingombro e quindi per sottrazione materiale allo spazio; le ragioni concettuali dell'esistenza plastica si traducono totalmente in valori spaziali. Lo scultore diviene così costruttore di un universo libero da dipendenze gravitazionali e materiali, che allestisce rapporti puramente spaziali. Questo autorizza la scultura a dimorare stabilmente il mondo, non come arredo, ma in quanto plausibile presenza. L’aggressività strutturale di certa scultura e espressione di un segnale di rivolta rispetto all'accertato predominio della pittura nei territori del cambiamento e della rifondazione di un idoneo ambiente artistico. Nella conquista di uno spazio della creazione sempre più ampio – che vede comunque negli ultimissimi tempi pittura e scultura unite quantomeno nelle più significative declinazioni, – si sottolinea la problematicità del presente ribadendo la specificità operativa dell'arte. Questo avveniva tramite l'identificazione con la luce nelle prime opere di metà degli anni '70, di tela e gommapiuma, bianche e soffici, nella rappresentazione di personaggi di leggende fantastiche sullo scenario delle forme simboliche. Polemiche a modo loro, in una dimensione sospesa tra favola e sogno, esaltando gli strumenti forti dell'arte, rispetto alla processualità dell'arte povera e alla sua forma di teatralizzazione nel reinvestimento dell'oggetto come figura energetica di un materiale già di per sé carico e surdeterminato simbolicamente e che occupa spazio per irradiazioni, e ai feticci del consumo di massa della pop art, nella volontà di riscoprire ed esprimere un’identità italiana di ordine metafisico che corre da Piero Della Francesca a De Chirco. Il palcoscenico che ha luogo e proprio quello dechirichiano, onirico, bagnato da una luce che fa essere e blocca assenze e distanze, in silenzi stupefatti. E’ evidenza di forma compiuta, in grado di attribuirsi la fantasticheria, 1'evidente artificiosità, la demiurgia che e capacità che Consolazione matura, di ripensare e riformulare e di proiezione fantastica per questo teatro di figure. Non è un caso quindi che 1'artista sceglierà come fonte d'ispirazione per questo periodo del suo lavoro, 1'opera più scenografica di tutta la cultura rinascimentale italiana è uno dei primi notturni in pittura, "il sogno di Costantino" di Piero Della Francesca, artista che optò nella sintesi di spazio teorico e spazio empirico, per la soluzione teatrale di un mobile gioco di schermi che accolgono e rimandano la luce. Peraltro i richiami degli artisti concettuali alla classicità, – da Paolini a Ceroli per esempio, – sono assai frequenti. La volontà di forma si esplica anche come un qualcosa che si costruisce con 1'abilità virtuosistica di una mano "femminile e laboriosa" che lavora con grazia e leggerezza creando immagini di un mondo sognante e sognato, alleggerite dal peso e che invitano al contatto. E la luce metafisica fa prendere compattezza e smaterializza, conferendo quella stessa "consistenza di cui son fatti i sogni", un fiabesco aereo, uno slancio vaporoso. |
La città, 1982 |
La vocazione contraddittoria dello slancio e della caduta, – il librarsi in volo e piombare a terra, – dell'altitudine e dell'abisso, – agilità e atassia –, del bianco e del nero, abita la scultura di Consolazione, come la fusione di istanze simultanee attribuite da Baudelaire al saltimbanco o al clown, archetipo starobinskiano dell'artista, nel dispiegamento della sua problematica agilità. Il grande amore per lo spettacolo e i suoi effetti catartici che mettono in maschera il reale fin nei suoi fenomeni più angosciosi, non e altro che il potente gioco esorcistico nei confronti del fantasma. Fantasma rappresentato nel modo più diretto è candidamente sdrammatizzato dall'artista "ghostbusters" (e se l'uno e "cacciatore", 1'altro il critico, non può esserne che il "domatore"), che fornisce gli elementi anche per strutturare una antiretorica del monumento come nelle "Shaped Canvases" di Pascali. Già in queste prime opere è evidente un preciso interesse per 1'installazione nello spazio, per 1'uscita fuori dal piano, perché appunto sia il più possibile evento e fisicità, coinvolgimento totale dello spettatore nel gioco dell'artista. La teatralizzazione in cui 1'opera sempre (quasi) si esplica, implica un racconto, anche se solo potenziale, per cui 1'elemento scenico abbisogna di conformarsi in immagine, che tra 1'altro in certi casi veniva amplificata o contraddetta dal suono il quale a sua volta creava un preciso peso specifico, come nei lavori che arrivano fino agli ultimi anni '70, contemporanei anche alle operazioni sul territorio come l’"InterVento" ad Ulassai del 1979. L'allargamento dell'opera nell'ambiente non significa evasione, al contrario assimilazione del circostante all'interno dell'arte. Poi, i "Cappelli Alati" di Mercurio – assunto a simbolo dell’agilità per eccellenza – di passaggio all'opera e al successo dell'arte, che mediante 1'impulso leggero ed elementare delle ali ai piedi segna lo slancio ascensionale della conquista dello spazio, come immagine mentale forte e dotata di energia e flessibilità, lontanta dal volo verso le regioni astratte della pura idealità. Consolazione passa continuamente da un materiale all’altro, o li combina insieme in paesaggi irreali di stoffa e terracotta sui quali interviene col colore o in curiose ed erotiche concrezioni vegetali con i quali siamo già nella prima meta degli anni ‘80 che segnano inoltre per 1’artista un momento tutto particolare. Il momento del sodalizio con Filiberto Menna siglato da una serie di mostre tematizzanti quegli allora nascenti problemi di ordine linguistico teorizzati dal critico e come oggetto inoltre, di una proposta critica, appunto, che nasca in intesa e concordanza di intenzioni tra critico e artista. Avviene ora il passaggio ad un “procedimento più costruttivo” dove il fattore dominante e dato da un’intenzionalità progettuale orientata verso la realizzazione dell’opera come una macchina complessa, come un congegno meccanico. |
Sonoro, 1978 |
“L’elemento spettacolare” continua Menna non viene meno neppure ora: anzi nel loro insieme queste opere recenti di Consolazione, di impianto sicuramente più costruttivo sembrano costituire una complessa machinerie scenica, in cui ciascun elemento contribuisce, con la sua particolare configurazione, alla messa in opera di uno spazio scenico, ancora una volta di un teatro della scultura. Ma questa volta i protagonisti non sono gli eroi di un romanzo cavalleresco che affrontano la conquista di un castello; ora ciascuna opera si presenta come un nero congegno strutturalmente aggressivo, come una macchina di guerra”. "L'elemento spettacolare" continua Menna non viene meno neppure ora: anzi nel loro insieme queste opere recenti di Consolazione, di impianto sicuramente più costruttivo sembrano costituire una complessa machinerie scenica, in cui ciascun elemento contribuisce, con la sua particolare configurazione, alla messa in opera di uno spazio scenico, ancora una volta di un teatro della scultura. Ma questa volta i protagonisti non sono gli eroi di un romanzo cavalleresco che affrontano la conquista di un castello; ora ciascuna opera si presenta come un nero congegno strutturalmente aggressivo, come una macchina di guerra". E in realtà in queste opere c’è 1'abbandono pur, se momentaneo della componente ludico-spettacolare. Una rinuncia che si segna di un dato di estrema interiorizzazione, come una momentanea rimozione, cancellazione: infatti dopo il bianco (la luce, il morbido), la scelta cade sul nero (1'ombra, il duro), un nero sotteso di valenze emotive e psichiche, ricavato da stratificazioni di materie cromatiche addensate le une sulle altre e conduttore di istanze sotterranee che conducono verso la ricerca di una simbolicità totemica. Le figure geometriche finiscono per caricarsi di valori quasi esoterici, in quanto i materiali, cemento ossidato e metallo, sono assunti nella loro capacita di trasmutazione, per cui 1'analisi verte proprio su quei processi di trasformazione nello scorrere tutto orizzontale del tempo. Se nelle opere precedenti il gioco della luce e dell'ombra si risolveva all'interno dell'opera stessa, ora le ombre fanno parte integrante della macchina della rappresentazione. Resta comunque inalterato il piacere del racconto, della narrazione sia pure con un linguaggio essenzializzato fino all'ermetismo: l'opera e la rappresentazione e animazione dell'ambiente tramite strutture e ingranaggi scenici; pur se con una valenza contraria che fa cambiare natura ad alcuni elementi utilizzati precedentemente come segni, segnali di forza e di trazione o di ingresso che tendono ad essere assorbiti, a dichiarare la loro debolezza, a sparire. |
Sonoro, 1978 |
C’è un agire simultaneo sul piano della narrazione, dell'invenzione immaginifica e della costruzione. La volubilità linguistica e il lavorare contro la fondazione di uno stile e a favore della formalizzazione specifica della scultura: è 1'eredità che Consolazione accoglie da Pascali. Una linea scorrevole e chiusa, curva e fluida, cuce tutto il suo operare, sia quando 1'opera si abbandona al fascino e agli inganni della referenzialità ma anche per via di sintesi, trascinata il più possibile verso un'astrazione che rimemora il reale con ironia, e sempre in un'accezione di inventività che rifiuta ogni omologazione. Gli ultimi lavori sui quali si articola questa mostra, il ciclo dall'85 al '90, sono frutto di un mettere in scena che consente la scomposizione e la disseminazione, il flusso rizomatico dei moduli a terra, il forte aggetto dalla parete. Sono macchine formali che contengono 1'idea della costruzione e dell'incastro in una complessità da montare e smontare continuamente, come il procedimento del giocattolo. Le sculture hanno spessori ampi e un gusto cromatico piuttosto accentuato, una vitalità tutta data dall'uso della linea curva capace di allegria e leggerezza, come per creare uno spettacolo per uno sguardo infantile. L'idea dell'opera come dispositivo di apertura di uno spazio scenico ha la conseguente necessità dei referenti: non a caso questi, si generano – oltreché nella sfida paradossale a piegare i piani e le superfici alla resa sfumata delle pieghe di un drappeggio o del fluire di una chioma –, nei titoli. In un'operazione che investe la dimensione laica e sdrammatizzata con cui 1'artista si accosta al mito che, riportato alla superficie, richiama 1'infanzia come suo luogo originario: "migratori dalle esili gambe", "solco di luce", "1'arcobaleno delle 5 vocali", "corda del cielo", "luna di quarzo", "angoli di cielo vuoto", "passo del sogno". Opere queste, che coniugano lo sperimentalismo, la ricerca alla favola, dove 1’artista si cimenta col gioco che è sempre sperimentale e combinatorio, per aprire la via ad un sapere fondato sul godimento e che genera conoscenza. La vera conoscenza che non è quella “del fine” bensì “conoscenza delle strade”. |
Paesaggio, 1986 |
La teatralità di Consolazione richiama Artaud a causa della preferenza per la materia povera e per quella percentuale di attrazione sentita verso ciò che anche se antropologicamente si definisce primario, primitivo, originario, mitico. Tuttavia la sua opera ha poco da spartire con quel precedente, infatti, Artaud parlando di atti fondatori sfiora una dimensione profondamente ontologica che va al di là di ogni forma di rappresentazione: “il teatro della peste” e in realtà dura autoanalisi nello scopo di ricondurre lo spirito alla “radice dei conflitti”, attraverso un’esperienza che non può che travalicare quella scenica. Si può dire che Artaud sia dovunque ma certo non a teatro, e 1’atto di cui parla è totale, assoluto. Tutto questo ha poco a che fare con Consolazione per il quale il teatro si identifica con distacco e la finzione: ne afferma infatti la positività, non il suo potere inibente, non si occupa della verità, ma apre il testo, 1’opera alla molteplicità delle letture. Per questi ultimi lavori e giusto parlare più che di congegni teatrali, di attrezzistica circense (steli per giocolieri, pedane per acrobati, aste per funamboli, sagome per tiratori di coltello...), trovando nel circo una giustificazione di ordine plastico, in quell'essere luogo predestinato, – chiuso e circolare dell'arena come figura del mondo, – della flessibilità per eccellenza, in cui forme e colori possono liberarsi e dove pose, movimenti, drappeggi variano all'infinito nello sprigionarsi di una simpatia dinamica e plastica nell'irresistibile conquista dello spazio. La "difficile agilità" di cui parlava Apollinaire, accennando all'acrobata, all'artista e al critico, coloro cioè che veicolano il senso, diviene impresa gnoseologica nel vero compito di "fare anima" (Starobinsky). Compito crudele, ma se rigoroso, necessario. Allora, in fondo, l'unico legame tra Artaud e Ettore Consolazione, resta quel concetto di "crudeltà", parola che si presta ad essere manipolata come un oggetto plastico e che tanto bene si confà alla scultura, a certa scultura, nella sua significanza di "necessità e rigore". |
InterVento |